Leggiamo Insieme #5

by - sabato, gennaio 05, 2013



Buona sera a tuttiiiii eccoci con un altra puntata dela rubrica Leggiamo Insieme che verra pubblicata ogni sabato,  scommeto che vi state chiedendo cosa sia ed eccovi la risposta essa non è un concorso letterario ho una lettura collettiva, ma consiste nel presentarvi un estratto, ho il primo capitolo di un libro a mia scelta, cosi da farvelo conoscere tramite la lettura di questa anteprima sono accette anche richieste ^_^ 
Il libro che ho scelto e il seguente:
Roger Zelazny Le cronache di Ambra 
Titolo: Le Cronache di Ambra
Autore: Roger Zelazny
Anno: 70-78 e 85-91
Editore: Fanucci
Stava per finire, dopo quella che a me sembrava un'eternità. Cercai di agitare le dita dei piedi, ci riuscii. Ero lì, steso in un letto d'ospedale, e avevo le gambe ingessate: ma le avevo ancora. Serrai con forza le palpebre, poi le riaprii, per tre volte. La stanza smise di roteare. Dove diavolo ero? Poi le nebbie si dileguarono, lentamente, e qualcosa di quello che viene chiamato memoria affluì di nuovo in me. Memoria: ricordai notti e non solo notti, sere e infermiere e punture. Aghi. Ogni volta che le cose iniziavano un poco a schiarirsi, qualcuno entrava e mi pungeva con qualcosa. Era andata così. Sì. Adesso, però, cominciavo a sentirmi quasi decentemente. Avrebbero dovuto smetterla. O no? Mi assalì un pensiero: Forse no. Un certo scetticismo naturale circa la purezza di tutti i moventi umani venne a insediarsi sul mio petto. All'improvviso mi resi conto che ero stato imbottito con dosi eccessive di narcotici. Non ce n'era una ragione vera, a giudicare da come mi sentivo, e non c'era neppure ragione perché adesso la smettessero, se erano stati pagati per continuare. Quindi fatti furbo e fai finta di niente, disse una voce che era il mio io più saggio... e peggiore. E feci così. Un'infermiera si affacciò alla porta una dozzina di minuti dopo e io, naturalmente, stavo ancora russando. Lei se ne andò. Intanto, io avevo ricostruito in parte ciò che era accaduto. Avevo avuto una specie d'incidente, questo lo ricordavo in modo vago. Che cosa era successo dopo, era ancora molto confuso; e in quanto a ciò che era accaduto prima, non ne avevo la più lontana idea. Ma prima ero stato in un ospedale, e poi ero stato portato in quel posto, a quanto ricordavo. Perché? Non lo sapevo. Comunque le mie gambe sembravano in buone condizioni, abbastanza per reggermi in piedi, anche se non sapevo quanto tempo fosse passato da quando s'erano fratturate... e io sapevo che si erano fratturate. Perciò mi sollevai a sedere. Mi costò uno sforzo autentico, come se avessi i muscoli molto stanchi. Fuori era buio, e una manciata di stelle spiccava cruda oltre la finestra. Ricambiai il loro ammiccare, e buttai le gambe giù dal letto. Ero stordito e avevo le vertigini, ma dopo un poco passò e io mi alzai, aggrappandomi ai piedi del letto, e mossi il mio primo passo. Bene. Le gambe mi reggevano. Quindi, teoricamente, ero in condizioni abbastanza buone per andarmene. Ritornai fino al letto, mi sdraiai e riflettei. Sudavo e tremavo. Visioni di prugne cotte, eccetera. C'era odore di marcio in Danimarca... Era stato un incidente di macchina, ricordai. Un incidente disastroso... Poi la porta si aprì, lasciando entrare la luce: e attraverso le ciglia socchiuse vidi arrivare un'infermiera con una siringa in mano. Si avvicinò al mio capezzale: una ragazza con i capelli scuri e le braccia robuste. E mentre lei si avvicinava, mi sollevai a sedere. «Buonasera,» dissi. «Ma... buonasera,» rispose lei. «Quando posso andarmene?» chiesi. «Dovrò domandarlo al dottore.» «Glielo domandi,» dissi io. «Adesso si rimbocchi la manica.» «No, grazie.» «Devo farle un'iniezione.» «No. Non ne ho bisogno.» «Purtroppo questo deve deciderlo il dottore.» «E allora lo mandi qui: che me lo dica lui. Ma nel frattempo, non voglio iniezioni.» «Purtroppo ho ricevuto ordini.» «Li aveva ricevuti anche Eichmann, e guardi che fine ha fatto.» Scossi la testa lentamente. «Benissimo,» disse lei. «Dovrò riferirlo...» «Lo faccia pure,» dissi io. «E dacché c'è, gli dica che ho deciso di andarmene domattina.» «È impossibile. Non è neppure in grado di camminare... e c'erano le lesioni interne...» «Vedremo,» dissi io. «Buonanotte.» L'infermiera sparì senza rispondere. Perciò rimasi lì disteso a rimuginare. Sembrava che fossi ricoverato in una clinica privata... quindi qualcuno pagava i conti. Ma chi poteva essere? Dietro i miei occhi non apparvero immagini di parenti. E neppure di amici. Chi restava, allora? Nemici? Riflettei a lungo. Niente. Nessuno che potesse farmi da benefattore. Ero finito in un precipizio con la mia macchina, e giù in un lago: lo ricordai all'improvviso. E questo era tutto ciò che ricordavo. Ero... Mi sforzai e ricominciai a sudare. Non sapevo chi ero. Ma, tanto per avere qualcosa da fare, mi misi a sedere e mi tolsi tutte le fasciature. Sembrava che sotto fosse tutto a posto, quindi mi pareva giusto togliermi tutte quelle bende. Ruppi l'ingessatura della gamba destra, usando un sostegno metallico che avevo tolto alla testata del letto. Avevo la sensazione di dovermene andare di fretta, perché c'era qualcosa che dovevo fare. Provai a vedere come funzionava la gamba destra. Era a posto. Spezzai anche l'ingessatura della gamba sinistra, mi alzai, andai all'armadio. Non c'erano vestiti. Poi udii i passi. Ritornai a letto e coprii il gesso spaccato e le bende. La porta si aprì di nuovo. Poi ci fu luce tutto intorno a me; e c'era un uomo massiccio con la giacca bianca, e teneva la mano appoggiata sull'interruttore. «Cos'è questa storia che mi ha riferito l'infermiera?» domandò lui; ed era inutile fingere di dormire. «Non lo so,» dissi io. «Che cosa?» La mia risposta lo lasciò sconcertato per qualche istante: lo capii da come aggrottò la fronte. Poi: «È l'ora dell'iniezione.» «Lei è medico?» chiesi. «No, ma sono autorizzato a farle un'iniezione.» «E io la rifiuto,» dissi. «Legalmente ne ho il diritto. Cosa ne dice?» «Le farò l'iniezione,» disse lui, e girò intorno al letto, dalla parte sinistra. Aveva in mano una siringa che fino a quel momento aveva tenuta nascosta. Fu un colpo molto basso, una decina di centimetri sotto la fibbia della cintura, direi, e quello finì in ginocchio. «...!» disse dopo un po'. «Torni a venirmi a tiro,» dissi io, «e vedrà quello che le succede.» «Sappiamo come trattare i pazienti come lei,» ansimò quello. Quindi compresi che era venuto il momento di agire. «Dove sono i miei vestiti?» chiesi. «...!» ripeté lui. «Allora immagino che dovrò prendere i suoi. Me li consegni.» La terza ripetizione mi annoiò, perciò gli buttai le coperte sulla testa e gli diedi una botta con il supporto metallico. Dopo due minuti, direi, ero tutto vestito di bianco, il colore di Moby Dick e del gelato alla vaniglia. Orribile. Lo spinsi dentro l'armadio e guardai fuori dalla finestra a grate. Vidi la Vecchia Luna con la Nuova Luna tra le braccia, sopra un filare di pioppi. L'erba era argentea e scintillava. La notte stava disputando debolmente con il sole. Niente mi indicava l'ubicazione di quel posto. A quanto pareva, mi trovavo al terzo piano dell'edificio, e c'era un riquadro di luce sulla mia sinistra, in basso: sembrava indicare una finestra al piano terreno, e la presenza di qualcuno ancora sveglio. Uscii dalla camera e studiai il corridoio. Verso sinistra finiva contro un muro con una finestra a grata, e c'erano altre quattro porte, due per lato. Probabilmente conducevano in altre stanze come la mia. Andai a guardare fuori dalla finestra e vidi altri prati, altri alberi, altra notte: niente di nuovo. Mi voltai e mi avviai nella direzione opposta. Porte, porte, porte, e da nessuna filtrava un filo di luce: gli unici suoni erano quelli dei miei passi, per via delle scarpe prese a prestito e troppo grandi per me. L'orologio da polso che avevo preso all'infermiere che sapeva come trattare i pazienti segnava le cinque e tre quarti. Il supporto metallico era infilato nella mia cintura, sotto la giacca bianca, e mi strusciava contro il femore, mentre camminavo. C'era una lampada nel soffitto, ogni sei metri, e irradiava circa quaranta watt di luce. Arrivai a una scala sulla destra: scendeva. Mi avviai. Era silenziosa e rivestita da una passatoia. Il secondo piano sembrava eguale al mio: file di camere. Proseguii. Quando arrivai al pianterreno svoltai verso destra, in cerca della porta che lasciava filtrare la luce. La trovai, quasi in fondo al corridoio, e non mi presi la briga di bussare. Il tizio stava seduto lì, con uno sgargiante accappatoio, seduto dietro una grande scrivania lucente, ed esaminava una specie di registro. Non era una camera per malati, quella. Lui mi guardò con gli occhi spalancati, aprendo le labbra per lanciare un grido che non ci fu, forse a causa della mia espressione decisa. Si affrettò ad alzarsi. Mi chiusi la porta alle spalle, avanzai e dissi: «Buongiorno. Lei è nei guai.» La gente è sempre curiosa, quando si parla di guai, perché dopo i tre secondi che impiegai ad attraversare la stanza, le sue parole furono: «Cosa vuol dire?» «Voglio dire,» risposi, «che presenterò una querela perché mi ha tenuto qui senza permettermi di comunicare con nessuno, un'altra per abuso della professione, per l'uso indiscriminato di narcotici. Sto già soffrendo i sintomi della privazione, e potrei abbandonarmi ad atti di violenza...» L'uomo si alzò. «Se ne vada,» disse. Vidi un pacchetto di sigarette sulla scrivania. Ne presi una e dissi: «Si sieda e stia zitto. Abbiamo diverse cose di cui parlare.» Lui sedette, ma non stette zitto. «Ha violato parecchi regolamenti,» disse. «Quindi lasciamo che sia un tribunale a decidere chi ha torto e chi ha ragione,» ribattei. «Voglio i miei vestiti e i miei effetti personali. Me ne vado.» «Non è in condizioni di farlo.» «Nessuno glielo ha chiesto. Si muova, o ne risponderà alla legge.» Tese la mano verso un pulsante sulla scrivania, ma io gli scostai la mano con una sberla. «Fermo!» ripetei. «Avrebbe dovuto suonare quando sono entrato. Adesso è troppo tardi.» «Signor Corey, lei sta creando difficoltà che...» Corey? «Non sono venuto qui di mia volontà,» dissi. «Però ho il diritto di andarmene. E ormai è tempo. Quindi si sbrighi.» «Evidentemente, lei non è in condizioni di andarsene da qui,» rispose lui. «Non posso permettere una cosa simile. Chiamerò qualcuno che la riaccompagni in camera sua e la rimetta a letto.» «Non ci si provi neppure,» dissi. «Altrimenti vedrà esattamente in quali condizioni sono. Ora, ho parecchie domande da farle. La prima è: chi mi ha fatto ricoverare qui, e chi è che paga per me?» «Sta bene,» sospirò lui: i minuscoli baffi chiari si abbassarono, con fare avvilito. Aprì un cassetto e vi infilò la mano; ma io stavo pronto. Gliela feci schizzare di mano prima ancora che avesse tolto la sicura: una calibro 32, automatica, molto bella. Una Colt. Tolsi la sicura io stesso, quando la presi dal piano della scrivania; la puntai, e dissi: «Adesso risponderà alle mie domande. Evidentemente, mi considera pericoloso. Forse ha ragione.» L'uomo sorrise debolmente, si accese una sigaretta; e fu un errore, se intendeva mostrarsi imperturbabile, perché gli tremava la mano. «Sta bene, Corey... se è questo che vuole,» disse lui. «È stata sua sorella a farla ricoverare qui.» «?» pensai. «Quale sorella?» dissi. «Evelyn,» rispose lui. Non mi ricordava niente. Quindi... «È ridicolo. Non vedo Evelyn da anni,» dissi. «Non sapeva neppure che mi trovavo in questa parte del paese.» L'uomo scrollò le spalle. «Comunque...» «E adesso dove si trova? Voglio chiamarla,» dissi. «Non ho l'indirizzo a portata di mano.» «Lo cerchi.» Lui si alzò, si accostò a uno schedario, lo aprì, vi frugò ed estrasse una scheda. La studiai. Signora Evelyn Flaumel... neppure l'indirizzo di New York mi diceva nulla, ma l'imparai a memoria. Come diceva la scheda, io mi chiamavo Carl. Bene. Altri dati. Poi mi infilai la pistola nella cintura, accanto al supporto, dopo aver rimesso la sicura, naturalmente. «Sta bene,» dissi all'uomo. «Dove sono i miei abiti, e quanto ha intenzione di pagarmi?» «I suoi abiti sono andati distrutti nell'incidente,» disse quello. «E devo dirle che aveva le gambe fratturate... quella sinistra in due punti. Francamente, non capisco nemmeno come riesca adesso a reggersi in piedi. Sono passate solo due settimane...» «Io guarisco sempre in fretta,» dissi. «Ora, per il denaro...» «Quale denaro?» «La composizione stragiudiziale della mia querela per abuso della professione, e per quell'altra accusa che le ho detto.» «Non sia ridicolo!» «Ridicolo? Chi è ridicolo? Mi accontenterò di un biglietto da mille... in contanti, e subito.» «Non intendo neppure discuterne.» «Bene, farà meglio a pensarci... e in ogni caso, pensi alla reputazione che si guadagnerà questo posto, se riuscirò a fargli abbastanza pubblicità prima del processo. Vede, mi metterò in contatto con l'Ordine dei Medici, e con i giornali, e la...» «È un ricatto,» disse lui. «Non voglio averci niente a che fare.» «O paga subito, o pagherà più tardi, dopo un'ingiunzione del tribunale,» dissi io. «L'una o l'altra cosa non ha importanza, per me: ma in questo modo le verrà a costare meno.» Se avesse ceduto, avrei avuto la certezza che le mie intuizioni erano esatte, e che c'era sotto qualcosa di sporco. Lui mi guardò furibondo, non so per quanto tempo. Alla fine disse: «Non ho qui il denaro.» «Mi dica lei una cifra, per un compromesso,» dissi io. Dopo un'altra pausa: «È un'estorsione.» «No, se paga per contanti, amico. Quindi sentiamo.» «Potrei averne cinquecento nella cassaforte.» «Li prenda.» Dopo avere ispezionato il contenuto di una piccola cassaforte a muro, mi disse che erano quattrocentotrenta, e io non volevo lasciare impronte digitali nella cassaforte, solo per togliermi il gusto di controllare. Perciò accettai, e infilai i biglietti di banca nella tasca della giacca. «E adesso, qual è la società di tassi più vicina che serve questo posto?» Lui me lo disse, e io controllai sull'elenco telefonico, e tra l'altro scoprii che mi trovavo nella parte alta dello stato. Gli ordinai perciò di fare il numero e di chiamare un tassi, perché non conoscevo il nome di quel posto, e non volevo fargli capire in quali condizioni era la mia memoria. Una delle fasciature che avevo tolto mi aveva cinto la testa. Questo significava qualcosa, insieme al fatto che non ricordavo bene alcune cose. Ma stavo imparando. Mentre chiamava il tassi, lo sentii fare il nome di quel posto: si chiamava Greenwood Private Hospital. Spensi la sigaretta e ne presi un'altra, e mi accomodai in una poltrona marrone accanto alla libreria. «Aspetteremo qui e lei mi accompagnerà alla porta,» dissi. Lui non spiaccicò più una parola.

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